Christian Meyer, storico batterista degli Elio e le Storie Tese, si racconta su Plindo eLabel
Foto © Lorenzo Desiati (grazie!)
Christian Meyer si avvicina alla batteria a soli 11 anni, prendendo lezioni da uno dei pilastri della Milano degli anni ’70: il Maestro Enrico Lucchini. Dopo aver approfondito lo studio dello strumento inizia a suonare con i «big» della musica italiana fino ad arrivare, negli anni ’90, alla collaborazione storica con gli Elio e le Storie Tese.
Oltre che ad essere un grande musicista, Christian Meyer è una persona davvero eccezionale. Lo abbiamo incontrato a margine della clinic svoltasi al Play Drums Percussions di Firenze e nonostante l’ora tarda, Christian si è dimostrato, ancora una volta, disponibilissimo come non mai.
Ed ecco quello che ci ha raccontato.
Ciao Christian, grazie per il tempo che ci dedichi. La prima domanda riguarda l’esperienza con Enrico Lucchini: quali sono le lezioni che ti porti dentro ancora oggi, sul lato umano e su quello musicale?
Ciao e grazie a voi, figurati! Sul lato umano Lucchini era un carattere forte, e come tale dava a tutti veri e propri consigli di vita: le sue non erano solo lezioni di batteria, ma insegnamenti su come ci si deve comportare quando si va a suonare in una jam session o quando si deve accompagnare dei musicisti. Ad esempio diceva sempre: «Durante il sound-check non suonate, non toccate lo strumento, non fate rumore. Quando è il momento di suonare fatelo, altrimenti state immobili»… Cosa che, peraltro, non sapevamo fare [ride].
La disciplina la impari solo on the road, non ci sono altri modi. Si trattava di consigli comportamentali molto utili e detti con grande carisma, perché lui era veramente magnetico: l’allievo faceva di tutto per non deludere il suo maestro, più che per far contento se stesso. E quando succede questo, tu allievo fai sempre tutto al massimo perché sai che lui è molto esigente e pretende molto da te. Questa è una cosa che si trova raramente in un insegnante, e anche nella mia esperienza mi rendo conto che sia molto difficile far “innamorare” l’allievo di te come maestro e spingerlo a dare sempre il massimo.
Sul lato tecnico invece lui ha trasferito il know-how della scuola Dante Agostini-Kenny Clark presso la quale lui aveva studiato, quindi portava questa sapienza “vera” dello strumento a noi poveri milanesi abbandonati nel nulla, che non riuscivamo nemmeno a tenere in mano le bacchette, perché negli anni ’70 sul lato batteristico non c’era niente in Italia.
Nel tuo modo di suonare, quanto spazio c’è per la tecnica e quanto per l’improvvisazione?
La tecnica, di base, bisogna impararla e conoscerla. Soprattutto sul tamburo, perché quando conosci bene il tamburo e conosci bene i rudimenti sei più libero sullo strumento e le mani vanno da sole. Quindi la tecnica c’è ed è importante. Prima di arrivare all’improvvisazione bisogna imparare le grandi frasi dei nostri idoli per avere un vocabolario da poter usare; a quel punto si inizia ad avere una concatenazione di frasi storiche dello strumento che possono essere elaborate e incastrate fra loro.
Solo così inizi a liberarti e a diventare un creativo, nessuno nasce improvvisatore su uno strumento: bisogna avere prima la conoscenza delle parole, proprio come succede con l’italiano. Più frasi conosci dei grandi interpreti e più sei libero di muoverti sullo strumento con la naturalezza di chi inventa. Quindi, diciamo, nel mio modo di suonare si trovano entrambi gli elementi.
Quale aspetto curi di più durante l’esecuzione?
Bella domanda. Io cerco di prestare la massima attenzione al tiro, quindi alla creazione di un coinvolgimento ritmico ipnotico. Cerco di far star bene i musicisti con cui suono e il pubblico che ascolta.
Poi mi piace suonare con dinamica, con alti e bassi: mantenere un groove di base solido, ma che comunque incappa in momenti di “raffinatezza silenziosa”, dei silenzi che permettono di catturare l’attenzione con poco senza doversi lanciare in virtuosismi. Non è facile da spiegare a parole, spero che si capisca meglio all’ascolto [ride].
Come scegli il set da utilizzare e come è cambiato il tuo approccio verso di esso nel corso del tempo?
Quando ho iniziato usavo dei set veramente grossi, ero molto influenzato dai batteristi degli anni ’70 e ’80 che usavano tantissimi tom. Penso ad esempio a Billy Cobham, che è stato uno dei batteristi che ho seguito di più. Adesso, negli ultimi anni, non seguo più niente.
Mi piace suonare con un tom e con un timpano o con due tom e un timpano, va benissimo così: ho la sensazione che con questo set minimale si possa fare tutto. Anzi: avendo poco materiale a disposizione stimoli la fantasia e ti spingi ad inventare nuove cose sullo strumento.
Quando ti cimenti con parti più complesse, ad esempio tempi dispari o dinamiche particolari, usi un approccio metodico (metronomo, spartito etc.) oppure più libero, legato alle sensazioni e alla fantasia?
In genere cerco di arrivare subito al dunque, quindi di individuare la cellula ritmica centrale memorizzando quello che fanno gli altri strumenti, soprattutto basso e tastiera. Cerco di capire gli incastri ritmici della misura in questione e, una volta memorizzata, cerco di liberarmi all’interno di questa cellula per dominarla.
All’inizio sono molto “sul pezzo”, non faccio niente se non l’accompagnamento richiesto dal brano; quando la struttura viene interiorizzata e digerita, allora mi libero e inizio a suonare benino il groove [ride].
Come ascoltatore invece, cosa cerchi in un batterista e in generale nella musica altrui?
Nella musica a me piacciono gli spazi, la raffinatezza armonica e il groove, inteso come tiro e ipnosi; un po’ quello che si diceva prima. Se entro in un locale mi piacerebbe sentire un gruppo con una bella ritmica serrata e coinvolgente, ma al tempo stesso capace di creare armonie raffinate e di usare accordi particolari, non quelli da spiaggia [ride].
Accordi più jazzistici o legati alla musica classica del Novecento, che producono belle melodie.
Nel corso della tua carriera hai collaborato con tante star italiane e non: Finardi, Mina, Giorgia, Mauro Negri Quartet, James Taylor, Akira Jimbo, Sonny Emory, Frank Gambale, Santana per citarne alcuni. C’è un’esperienza che vorresti replicare?
Così su due piedi non saprei risponderti, perché ho avuto la fortuna di integrarmi con musicisti di enorme qualità e quindi non riuscirei dirlo. Però, ecco, rovesciando la domanda ti risponderei che vorrei poter suonare con Stevie Wonder. Una volta fatto questo non avrei bisogno di fare altro nella mia vita, sarei appagato per sempre e potrei ritirarmi sul passo della Futa [ride].
Quanto è importante secondo te la collaborazione per la crescita musicale dell’artista?
Tantissimo! È evidente che quando tu suoni con qualcuno di veramente forte, il tuo livello si alza di un gradino. Più collabori e ti confronti con gente più brava di te, e più la tua bravura e le tue capacità si elevano. Anzi, se posso consiglierei a tutti di collaborare e suonare con quanta più gente possibile, soprattutto se più brava di noi, perché è fondamentale per il proprio sviluppo e la propria crescita.
In più i grandi musicisti sono quasi tutti reduci da una gavetta lunghissima e faticosa, hanno suonato nei peggiori locali del mondo e magari sono stati anche buttati fuori a calci, quindi sono estremamente umili e suonare con loro equivale a suonare coi tuoi amici in cantina. Spesso sono i musicisti di medio livello quelli che rompono di più le scatole, ma non fateci caso [ride]!
Domanda di rito sugli Elio e le Storie Tese: ho notato che, dall’inizio ad oggi, è cambiato molto il sound dei pezzi. Questo cambiamento è dovuto a un diverso metodo compositivo o ad altri fattori?
Direi che le modalità compositive sono rimaste più o meno le stesse di sempre, ciò che cambia sono le persone. I caratteri si plasmano, più si avanza con l’età e più si diventa tolleranti, si è molto meno talebani quando si matura. Forse è cambiato questo: il tipo di approccio, non si va più a correggere qualcosa o a cercare il pelo nell’uovo.
Se qualcuno propone una cosa e non ti piace la si tollera molto di più, forse all’inizio c’era un po’ più difficoltà nel conciliare le diverse visioni. Anche se, per fortuna, non si è mai arrivati a veri e propri conflitti o scontri interni.
Domanda conclusiva: qualche news sul Trio Bobo e La Drummeria, gli altri tuoi progetti musicali?
Col Trio Bobo siamo rimasti un po’ fermi, anche per evitare sovrapposizioni col tour degli Elii. Ma ora siamo tornati in attività e abbiamo organizzato già diverse date in giro per l’Italia. Con La Drummeria si continua sempre, anche se ora c’è un “fermo macchina” perché vorremmo rinverdire e rinfrescare un po’ il repertorio. Questo però comporta il dover provare, e trovare il tempo per farlo è veramente difficile [ride].
Un altro progetto a cui tengo molto è il Color Swing Trio, con il quale riprenderò a fare delle date a breve. Si tratta di un progetto pianoforte-clarinetto-batteria, senza basso, che è veramente forte. Un ottimo gruppo da ascoltare, sicuramente.
Intervista a cura di Daniele Mu